Teoria/ideologia gender

Su questo argomento sono stati scritti fiumi, in modo più o meno esatto, in salsa ironica e seriosa. Una fonte valida da leggere è il libro di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo: La crociata “anti-gender”. Dal Vaticano alle manif pour tous.

Un volantino valido da scaricare è quello della Comitata Giordana Bruna  “Chi ha paura del gender 1 – strumenti per una corretta informazione”.

Interessante da leggere anche questo articolo.

Che si tratti di un mito creato ad hoc, di un argomento fantoccio, “Straw man” in inglese, per provocare avversione verso la comunità LGBTQIA e per prevenire qualunque tipo di educazione che alteri lo status quo, è scontato. Non a caso si sono rivolti ai genitori nelle scuole paventando indottrinamenti.

Tra l’altro, se di pericoli si deve parlare, è molto più pericoloso per l* bambin* venire espost* a ruoli rigidi piuttosto che ricevere qualunque educazione sul proprio corpo, sull’identità e sull’espressione di genere (anche se a scuola per ora al massimo si insegna la parità di genere e il rispetto per l’altro genere). Se di ideologia si deve parlare, quella integralista cattolica che si sposa con le destre (anche estreme) e che sfrutta l’odio contro il diverso per creare un capro espiatorio è sicuramente meno istruttiva di una educazione al rispetto delle differenze proprie ed altrui.

Che i ruoli di genere rigidi siano dannosi lo dimostra uno studio mondiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nello studio si vede come in tutto il mondo, i ruoli di genere rigidi portino ad un incremento significativo dei rischi per la salute fisica e mentale nel corso della vita sia per i maschi che per le femmine.

Un bellissimo documentario della BBC invece, a cura di un medico di Medicines Sans Frontieres, Javid Abdelmoneim intitolato “No more boys and girls” racconta un esperimento in cui gradualmente vengono rimossi da una scuola gli elementi, (aspettative di genere, simboli, storie) che diano indicazioni rigide sui ruoli di genere senza indirizzare nessun* verso un’identità di genere diversa dalla loro.

In altre parole è stato modificato l’ambiente scolastico di una classe di student* di 7 anni (a 7 anni si sono già formate credenze stabili sul genere) e sottraendo tutto quello che riduceva un bambin* alla sua anatomia, a stereotipi, a ruoli rigidi sono state ampliate sia la percezione delle proprie potenzialità che l’immaginazione nei confronti del futuro senza intaccare minimamente l’identità di genere.

Nelle due puntate si vede quanto le femmine già a 7 anni abbiano un’autostima di gran lunga più bassa dei maschi e siano pertanto meno in grado di riconoscere le proprie competenze e il proprio valore, prevedere un eventuale successo che a ruota influisce sulla loro motivazione e indirizza le loro scelte. Per i maschi si nota invece come alcuni abbiano aspettative irrealistiche rispetto alle effettive capacità e quanto sentano già a quell’età la spinta a dimostrare la loro superiorità, pena la vergonga o la frustrazione che viene scaricata con attacchi d’ira.

L’immaginario studentesco all’inizio è influenzato dai media ed è stereotipico. Quando a* bimb* vengono presentate persone che lavorano in ruoli che avevano pensato come esclusivamente maschili o femminili si espande anche la loro immaginazione rispetto a quello che potrebbero o vorrebbero fare da grandi e non credevano di poter fare perché come dice un’altro interessante documentario, Miss Representation “if you can’t see it, you can’t be it” – se non puoi vederlo, non puoi esserlo.

E già che siamo a parlare di genere, è il caso di fare chiarezza sui molteplici significati e sulle relative distorsioni che questa parola assume.

Qui un piccolo schema orientativo:

L’identità e l’espressione di genere riguardano la persona.

L’identità di genere riguarda come percepiamo il nostro genere al di là di tutti gli altri fattori. Ce l’abbiamo tutt*. Che sia data per scontata perché si allinea alle aspettative di una determinata società in un determinato periodo storico (cisgender) o sia stata elaborata perché non ci si rispecchia in esse (transgender, non binary, genderfluid etc.), comunque si tratta di identità di genere perché riguarda  un’autopercezione, fosse pure quella di non avere un genere come nel caso delle persone agender.

L’espressione di genere riguarda come si esprime o non si esprime il proprio genere autopercepito. L’espressione di genere può dare luogo a fraintendimenti nella comunicazione, quando il genere espresso/non espresso viene percepito in modo errato da chi lo interpreta. L’ideale è chiedere sempre e scusarsi se si sbaglia.

Passiamo alla società. Ogni società si racconta i corpi e di conseguenza i generi. Lo fa con le leggi e la giurisprudenza, con gli atti amministrativi e i regolamenti, lo fa con le convenzioni sociali, lo fa con i valori che promuove attivamente. In particolare ogni società si racconta cosa significa nascere e crescere in un determinato corpo piuttosto che in un altro a seconda di come interpreta le sue tradizioni, i testi religiosi, recentemente anche i testi scientifici e come interpreta sé stessa e la propria funzione in quanto gruppo sociale (aperto o chiuso). Ogni società racconta anche quali sono i corpi dominanti e quali quelli subordinati. Questo racconto può variare significativamente tra cultura e cultura e nel tempo.

Troviamo quindi nella storia e nel mondo società che avevano/hanno ruoli di genere più o meno non binari o fluidi, più o meno applicabili a tutti i corpi o specifici solo per alcuni, che prevedono/prevedevano la completa integrazione e uno status elevato, una parità sostanziale oppure una marginalità specialistica.

Troviamo inoltre società che hanno segni (significanti) che attribuiscono come valore specifico ad un genere piuttosto che ad altri. Per esempio in Uzbekistan avere il monociglio era (ora un po’ meno a causa della globalizzazione) segno di femminilità e desiderabilità a tal punto da portare le donne che non ce l’hanno/avevano a dipingerselo, mentre qui sarebbe interpretato come disvalore, un segno di povertà o noncuranza. Ugualmente il rosa era un colore “da maschi” nella prima metà del ‘900 mentre oggi se vediamo un maschio che si veste con un vestito rosa ci chiediamo se sia gay o trans.

Ritratto di un bimbo con vestito rosa e merletto bianco. L’opera originale si trova al museo artistico di Honolulu. Licenza Wikimedia

Nel nostro paese le aspettative societarie sono cis(gender)-centrichebinarie ed eterosessiste.

L’aspettativa cis-centrica è la base alla quale si aggiungono le altre. È l’imperativo che vuole il corpo allineato con l’identità di genere e l’identità di genere allineata con l’espressione di genere. È l’imperativo che prende delle caratteristiche del corpo (i caratteri sessuali primari e secondari) e riduce la persona ad essi.

Quando l’identità di genere non si può ridurre a determinate caratteristiche anatomiche si parla di persone transgender, transessuali, non binary.

Quando l’espressione di genere non si può ridurre a determinate caratteristiche anatomiche o all’identità di genere, si parla di persone gender non-conforming, gender creative, gender variant, non binary etc.

L’aspettativa binaria consiste nel pensare solo due sessi/generi e nel ritenerli contrapposti e complementari tra loro.

L’aspettativa eterosessista (o come la definiva Adrienne Rich, eterosessualità obbligatoria) vuole che determinate caratteristiche anatomiche determinino necessariamente e in maniera esclusiva (escludendo bisessual* e pansessual*) l’orientamento sessuale e affettivo eterosessuale.

Qui un piccolo schema dell’allineamento delle aspettative.

Le aspettative societarie sul corpo possono variare nel tempo. Non avevamo la possibilità di abortire prima degli anni ’70. La variazione dipende dalla narrativa congiunta delle persone e dei gruppi di interesse che esprimono chi sono e quali sono i loro bisogni e portano avanti campagne mirate, dalla politica che fa sue o meno queste istanze, dalle leggi e dalla giurisprudenza che si adatta o meno a questi bisogni espressi, dalla scienza e dalla tecnologia che permettono o meno di soddisfare e legittimare questi bisogni, ma anche dalla rappresentazione mediatica etica e non distorta.

L’importante è capire, per quanto riguarda la rappresentazione mediatica distorta, che distorcere crea danni e che i danni creati ricadono sulla società tutta a livello collettivo. Se facciamo sentire sbagliat* una persona trans, costringendola ad essere quello che non è, non riuscirà ad esprimere le proprie potenzialità. Se viene discriminata sul lavoro dovrà ricadere sulle risorse familiari o se non ha una famiglia che la sostiene finirà per strada o dovrà commettere qualche reato per sopravvivere o non vedrà alternativa al suicidio. I diritti e il benessere delle persone trans (come quelli di qualsiasi altra categoria) sono un interesse di tutt*. Non siamo scollegat* tra noi.

Più ci interessiamo del benessere di tutt* più la società migliora per tutt*. Non a caso nel libro “La misura dell’anima”, Richard Wilkinson e Kate Pickett, due epidemiologi, analizzano la correlazione tra disuguaglianza e lunghezza/qualità della vita e notano che laddove la disuguglianza sociale è maggiore, la qualità della vita in termini di salute e la lunghezza della vita è minore anche per i più ricchi.

Il gender, che in italiano si traduce genere (ma gender rende più esotico ed estraneo il concetto, che è ideale per crearne un capro espiatorio), non è quindi nulla di complesso o di pericoloso. Non è una ideologia perché non mira a cambiare la percezione della propria identità o della propria espressione di genere. Non è una teoria nel senso empirico del termine (può essere solo una teoria filosofica o metafisica) perché le teorie empiriche implicano delle ipotesi che vengono verificate falsificandole. Nel caso dell’identità di genere non è nemmeno un’opinione e non è dibattibile: è oggettiva e può esprimerla solo la persona stessa, se vuole.

Che sia oggettiva si deduce sia da studi neurologici (che sono agli albori e quindi poco affidabili per adesso) e soprattutto dal fatto che reprimere l’identità di genere causa conseguenze gravi. Viene riconosciuto da pressoché tutte le maggiori associazioni di psicologi nel mondo che le “terapie” riparative hanno effetti nocivi.

D’altronde non occorre scomodare la scienza per capirlo: se prendiamo una donna e la costringiamo a vestirsi e comportarsi da uomo contro la sua volontà per anni, sminuendo continuamente quello che sente di essere come non legittimo, non ci possiamo poi stupire se sviluppa pensieri suicidi, depressione, ansia o se mette in atto il suicidio e lo stesso accade se prendiamo un uomo e lo sottoponiamo allo stesso trattamento. Ma per qualche motivo le persone trans (e omosessuali) proprio perché vengono pensate come devianti dalla norma (e la norma come indiscutibile), sono state sottoposte a questo tipo di “trattamenti” per “aiutarle”. E a creare questo tipo di distorsione è stato un assunto di base cis-centrico. Per capire se qualcosa è transfobico o meno basta sostituire trans con cis e se stona, è transfobico.

Tornando alla “teoria gender” esistono invece studi di genere che si interrogano sul rapporto tra corpo, percezione ed espressione dell’identità a livello sociale. Si interrogano sul significato sociale che viene dato al corpo. Si interrogano sulle narrative, sulle  pratiche e sulle politiche sottese nelle relazioni sociali a tutti i livelli (personale, familiare, istituzionale, amministrativo etc.). Ma in nessun modo mettono in discussione la legittimità della percezione personale o vogliono cambiarla perché sarebbe una violenza. Diventa quindi chiaro che quella integralista cattolica sia una proiezione. Proietto su un gruppo sociale che mi mette a disagio (perché la mia identità religiosa vacilla di fronte a questi studi) un comportamento che io ho nei loro confronti accusandoli di fare quello che faccio io.