Alterità trans e media

Un’estratto della presentazione durante il panel di Transitional States su come viene creata, nei media, l’alterità trans. Qui, visto che non ho limiti di tempo, mi addentro anche nella teoria dietro la presentazione.

La creazione dell’alterità parte dalle premesse. Tutt* abbiamo dei bias cognitivi che ci permettono di vedere solo una piccola parte, un piccolo tronco di cono della realtà. Oltre questo piccolo tronco di cono non riusciamo a guardare almeno che non ci avvaliamo della prospettiva di qualcun* altr* che veda un tronco di cono diverso dal nostro.

La nostra prospettiva è informata dalle premesse. Cosa è reale? Cosa è vero? E cosa no? Lo stabiliscono le premesse (ontologia). Le premesse poi vanno ad informare come sappiamo che è vero (epistemologia) e quali siano i mezzi più adeguati per dimostrare che sia vero (metodologia e metodi), quest’ultime esercizi prettamente accademici.

Nel giornalismo, la sensazione di realtà e verità viene fornita attraverso interviste, storicizzazione dei fatti, fonti considerate autorevoli e video. Ma sappiamo bene che fonti un tempo considerate autorevoli, hanno fatto grandi danni finché non è arrivat* qualcun* che ha proposto una nuova prospettiva. Per non fare danni le “fonti autorevoli” dovrebbero non dare mai per scontato di avere la verità altrui in tasca e ascoltare con apertura quello che viene detto. Ma soprattutto non frapporre gli interessi politici e personali al benessere della persona.

Sappiamo inoltre che a seconda di come viene editato un video e a seconda del frame (la cornice) di un articolo chi legge può essere portato a percepire una distorsione piuttosto che la realtà. Non è un caso che le fake news siano così popolari ed essendo già possibile editare anche i video in modo che non si noti più la differenza tra realtà e finzione (i cosiddetti deepfake), l’informazione si dovrà necessariamente confrontare con altre sfide per mantenere la credibilità.

Ma torniamo alle premesse:

Se diamo per scontato che sia il sesso a determinare la nostra identità di genere, le nostre premesse saranno essenzialiste e deterministe. E non importa quante persone dichiarino che la propria identità di genere non coincide con il sesso assegnato alla nascita, penseremo che stanno mentendo, che abbiano problemi mentali e se siamo particolarmente “complottar*” o ci fa comodo creare un capro espiatorio perché ci sentiamo minacciat* dalle premesse altrui, magari ci inventeremo anche una “ideologia gender” per creare allarmismo.

Le premesse cis portano quindi ad un cono di percezione della realtà, esclusivamente cis. Per riuscire a vedere la realtà trans, una persona cis deve per forza di cose porsi in posizione di ascolto e di fiducia rispetto alle prospettive trans (non si tratta di una narrativa unica, come non è una narrativa unica quella cisgender). Chi pensa di avere la realtà in mano, di solito finisce per proiettare la propria esperienza, il proprio cono limitato sull’esperienza trans senza vederla mai e senza mai riuscire a porsi con l’empatia dovuta quando essere trans comporta conseguenze problematiche (e non è scontato che le comporti, dipende molto dagli ambienti in cui è cresciuta e in cui vive la persona trans).

Per esempio gay, lesbiche e bisex, facendo parte della comunità LGBTI+, a volte pensano di sapere tutto in automatico anche delle tematiche trans ma mi è capitato più di una volta di sentirl* parlare a sproposito delle persone trans durante conferenze o convegni, dicendo per esempio che le persone trans in realtà sono gay o lesbiche che non si accettano. O prendosi gioco delle identità non binarie. Una informazione corretta non dà la parola a chi distorce. Non date per scontato che solo perché una persona è gay, lesbica, bisex sia in grado di parlare per le persone trans o sia competente in materia (anche se ci sono tantissim* persone bisex, lesbiche e gay in gamba e competenti).

Quando queste molteplici distorsioni delle esperienze e delle prospettive trans vengono ripetute nel tempo, come ci insegnano LeFebvre, Marleau-Ponty, Bourdieu, Butler etc., la ripetizione nel tempo solidifica ancora di più l’idea in chi legge, ascolta o partecipa nei luoghi (virtuali o meno) dove vengono diffusi questi discorsi che la distorsione equivalga alla realtà.

Il tutto poi si inserisce in un sistema valoriale che struttura la società in cui essere e  sembrare cis è posto al di sopra dell’essere o sembrare trans. L’essere e sembrare cis diventa quindi la norma e non c’è bisogno di giustificarlo e discuterlo, mentre l’essere e/o sembrare trans, le alternative al binarismo etc. richiedono sempre giustificazioni, sospetto e scrutinio nei confronti della persona che si professa trans o non binaria.

C’è un interessante libretto di Steven Lukes intitolato “Potere, una visione radicale” dove analizza 3 modi in cui A fa fare a B qualcosa che altrimenti B non farebbe. Uno dei modi più efficaci è quello di limitare le scelte restringendo l’universo del possibile, del pensabile e del desiderabile per B e per chi lo circonda.

Traslando quanto afferma Lukes nella realtà trans, la restrizione delle possibilità si manifesta nei media attraverso personaggi trans sempre sfigatissimi che muiono o si automutilano, che vivono ai margini della società o soffrono tremendamente. Non solo questa visione rispecchia la distorsione che vede l’essere o sembrare cis preferibile all’essere sé stess* ma ha anche il duplice vantaggio che la rappresentazione dell’impotenza trans conferma l’egemonia cis. Nelle cronache si manifesta in chi vorrebbe sopprimere l’identità  trans facendola passare per moda o una malattia etc. Nella vita di tutti i giorni si manifesta nel non poter dare per scontato che si è trans, nello scrutinio continuo di chi ci sta vicino e non se ne fa una ragione che siamo trans, nei professionisti che mettono più ostacoli possibile perché non vogliono passare il testimone della responsabilità degli esiti della transizione alla persona trans. Questo potere di dettare cosa sia la norma e che trans non sia “normale” si manifesta in un’età media di accesso ai servizi alta, in percentuali di abbandono scolastico precoce, in maggiore disoccupazione rispetto alla popolazione e in tutte le altre forme di violenza, discriminazione e isolamento a cui sono soggette le persone trans e non binarie. Il corpo in definitiva è il problema minore per la persona trans. Farsi credere il problema maggiore.

L’essenzialismo, il riduzionismo, il determinismo biologico (i significati sono differenti ma il succo è sempre quello) appiattiscono l’identità di genere riducendola ad alcune caratteristiche biologiche (e non ad altre). Genitali, apparato riproduttivo e cromosomi diventano una sentenza di identità pensata come oggettiva. Da un lato questa visione è seduttiva nella semplicità dell’equazione parte del corpo=identità ma non tiene conto che il cervello e gli ormoni fanno parte del corpo e la percezione di sé avviene anche a livello biologico nel complesso interagire tra cromosomi, ormoni e connessioni neuronali che si formano interagendo con l’ambiente durante lo sviluppo e che quindi l’identità di genere ha anche una matrice biologica e non è un’invenzione campata in aria da dei folli che si alzano una mattina e che, siccome non sanno come complicarsi la vita, cominciano a dirsi trans.

Le cronache recenti abbondano di esempi di riduzionismo. Arcilesbica che scrive che “Nessuno nasce da due uomini” ignorando i numerosi padri trans. Pro Vita che rincara con i manifesti “Due uomini non fanno una madre” giocando sull’immaginario machista che vuole le madri automaticamente le uniche atte alla cura.

Trump che in un memo intercettato a fine ottobre si proponeva di cambiare la definizione legale di sesso nella legge che sostiene i diritti civili impedendo la discriminazione nei programmi educativi finanziati dal governo, detta Title IX.

La proposta ha l’obiettivo di modificare la definizione di sesso:

Per sesso si intende lo status di maschio o femmina che si basa sui tratti immutabili biologici identificabili prima della o alla nascita” e “il sesso sull’atto di nascita originale, costituirà la prova definitiva del sesso della persona almeno che non venga confutato da prove genetiche affidabili”.

Per comprendere meglio cosa sta accadendo negli Stati Uniti, bisogna capire che il divieto di discriminare in base al “sesso” è stato allargato in certi casi ad includere l’omosessualità e l’identità di genere delle persone trans e che in gioco non c’è solo il sesso ma anche la legittimità e la protezione di queste ultime categorie. Come verrà definito il sesso determinerà quindi se sussista o meno discriminazione per le categorie sottese nella sua definizione.

Semplificando, se la proposta venisse accolta, nello stabilire se una persona è stata discriminata o meno, varrebbero solo i suoi genitali alla nascita o i suoi cromosomi.

Una persona trans o intersex non godrebbe quindi degli stessi diritti civili di tutt* l* altr* cittadin* american* e non potrebbe più farli valere in ambito educativo.

Di Lisa Littman e della sua “ricerca” in cui ha intervistato solo i genitori di alcuni forum transfobici, in cui ha comparato l’essere trans all’anoressia e in cui sostanzialmente sta facendo rientrare per gli adolescenti AFAB rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta con la derubricazione dell’incongruenza di genere dell’OMS dai disturbi mentali, a maggio di quest’anno, ne avevamo già parlato.

Questo tipo di premesse, dettate da una prospettiva cisgender che appiattisce alcune caratteristiche biologiche (ma non tutte) con l’identità di genere (ovvero la propria esperienza di sè),  non possono che portare a conclusioni errate e distorte per una persona transgender.

Ho suddiviso le narrative distorte in 4 tipi.

Il pietismo è una narrativa che piace molto alle persone cis. Come ho già spiegato in un altro post, conferma il fatto che il corpo giusto è quello cisgender, fa sentire la persona cisgender filantrop*, invisibilizza e de-responsabilizza le persone cis dal creare ambienti sociali accoglienti, inclusivi e affermativi per le persone trans e infine poiché la rappresentazione della “sofferenza” conferma la visione patologizzante senza dover riflettere che la sofferenza è una conseguenza di come vengono trattate le persone trans e non solo un antecedente relativo al corpo. Inoltre questo immaginario priva le persone trans di storie a cui aspirare che non siano tragiche. In un interessante documentario femminista “MissRepresentation” parlando della rappresentazione femminile si diceva: “If you can’t see it, you can’t be it”. Se non riesci a vederlo, non puoi esserlo (diventarlo). Questo vale anche per le persone trans.

Avendo un passato da lesbica (è dal 1994 che sono out) ho visto il cambiamento nel cinema della rappresentazione lesbica e bisessuale. C’è stato il periodo delle lesbiche psicopatiche (Butterfly kiss), le lesbiche strane (Even cowgirls get the blues), le lesbiche mafiose (Bound), le lesbiche suicidarie (famosa è diventata la cosiddetta “sindrome della poiana” in cui i film che finivano bene si contavano sulle dita di una mano), per poi arrivare in 20 anni circa ad avere una rappresentazione più variegata delle lesbiche e delle bisessuali perfino nelle serie tv nostrane.

Attendo con ansia che questo cambiamento, che è un cambiamento di prospettiva e di sguardo, arrivi anche per la rappresentazione visiva delle persone trans perché le tragedie continue avrebbero già stufato da un pezzo. Le persone trans hanno bisogno di sognare e di sperare non di rivivere i loro traumi continuamente sul grande schermo, spesso raccontati sempre e solo da persone cis con una narrativa medicalizzante e genitale-centrica. Questa rappresentazione non è in contatto con la realtà. La comunità trans è variegata in termini di età, di impiego, di studi, di esperienze etc. Solo una rappresentazione mediatica che rispecchi questa varietà è credibile.

Il pietismo è anche la narrativa di appoggio della patologizzazione. Quella che ci riduce alla disforia e che pensa la disforia come prettamente corporea (e nessun* vuole negare che esista la disforia corporea), però i maggiori ostacoli sono a livello sociale, in termini di ostacoli nell’accesso a diritti fondamentali.

L’esempio più clamoroso di pietismo, è stata la trasmissione “Storie del genere” di RAI 3. Ha tutte le caratteristiche per essere il cliché del pietismo.

C’è Sabrina Ferilli che spiega le persone trans al pubblico presumibilmente cisgender, perché essere trans viene pensato come qualcosa di talmente complicato che ci vuole una persona cis per spiegarci (una sorta di Caronte cis che traghetta lo spettatore medio nel terribile mondo trans), c’è una continua ripetizione di parole chiave pietistiche: sofferenza, dolore, disagio, affett* da, disturbo, si parla dell’essere trans come di una “scelta” (personale) esattamente come un tempo si parlava di omosessualità come di una scelta. Ci sono i professionisti che (gravissimo) affermano  “Quando arrivano qua hanno moltissima fretta e dobbiamo molto combattere per rallentarli” (provate a pensare di avere problemi di cuore, andare dal cardiologo e di sentirvi fare un discorso del genere) e gli stessi professionisti che invisibilizzano le identità non binarie nonostante vadano per la maggiore tra i giovan*.

Un’altra narrativa che vuole che le persone trans non siano credibili e non possano parlare per sé, è quella della non-autenticità. La tua vita pre-transizione viene citata anche se hai 80 anni e se sono 60 anni che hai transizionato anche legalmente.  Ridurre al passato, riportare il nome alla nascita sono tutti modi per infantilizzare, riportare ad un periodo in cui si è dipendenti dalle cure altrui e non prendere sul serio la persona per chi è, le sue esperienze, la sua vita attuale (o la sua morte in caso di morte). Il continuo deadnaming o richiami al fatto che sia nat* maschio/femmina, il misgendering che finalmente comincia ad essere preso sul serio come forma di invalidazione dannosa (Twitter ha riconosciuto recentemente il misgendering come forma di abuso contraria alle norme di utilizzo) hanno lo stesso effetto delegittimante.

Si trovano ancora spesso casi in cui il genere nel titolo poi non rispecchia quello negli articoli o viceversa, come se il/la/u giornalist* usasse questa tecnica per passare il messaggio che la persona è trans e in quanto tale, non autentica. Anche la vecchia definizione di “terzo sesso”, mira ad estrapolare la persona trans dal contesto sociale, costruendola come qualcosa di misterioso e affascinante e che allo stesso tempo evoca disgusto, con toni che ricordano le descrizioni di Said in “Orientalismo” quando descrive come viene percepito l’Oriente dai colonialisti.

Questo tipo di costruzione della persona trans serve anche a giustificare la violenza nei suoi confronti. Un articolo del Gazzettino di Padova titolava: “Prostituzione, scopre che è un trans: chiede i soldi indietro e lo aggredisce” (2 misgendering). Per poi iniziare l’articolo con: “Uno spiacevole equivoco è all’origine dell’aggressione…”. Provate ad aggredire un poliziotto perché lo scambiate per qualcun altro e vedere poi se l’aggressione viene poi definita “uno spiacevole equivoco”. Ovviamente no, accade solo per le persone trans (specie le sex worker e le prostitute) che sono anche quelle che le statistiche sugli omicidi indicano come il target principale perché la combinazione di sessismo e transfobia porta il pubblico a de-umanizzarle e la stampa di bassa lega ci marcia su questa visione distorta invece che contrastarla.

Della ricerca di Lisa Littman e di come miri a far rientrare dalla finestra per adolescent* trans, quello che è uscito dalla porta con la de-rubricazione da parte dell’OMS dell’incongruenza di genere dal capitolo dei disturbi mentali ne ho già ampiamente parlato, quiqui e soprattutto qui. Che essere non binari non sia una moda o un capriccio moderno, è stato affrontato qui.

Ritornando al potere della ripetizione delle percezioni distorte, troviamo che quando arriva qualche distorsione dall’estero (come la ROGD dagli Stati Uniti o l’allarmismo gender dalla Francia) le principali fonti che fanno da cassa di risonanza in Italia sono alcuni quotidiani nazionali come il Corriere (Monica Sargentini in particolare ma anche alcuni suoi colleghi), il Giornale, Avvenire, diversi blog o siti reazionari o legati all’integralismo cattolico come Pro Vita, La Verità, Interris etc. Con l’acquisizione di Panorama da parte della Verità adesso si aggiunge anche quello.

Dal punto di vista dei professionisti, in Italia viene usato continuamente il termine “identità sessuale” ma l’identità di genere non ha nulla di sessuale, non ha nulla a che vedere con l’orientamento sessuale. È qualcosa di assolutamente distinto dalla sessualità tanto che ci sono persone trans lesbiche, bisessuali, pansessuali, omosessuali ed eterosessuali. La mia esperienza nel centro di Careggi è stata di una somministrazione di batterie di test che andavano a sondare con una dovizia di dettagli morbosa la mia storia sessuale: masturbazione, orientamento sessuale e via dicendo. Sarebbe il caso di smetterla di somministrare questi test svilenti che nulla hanno a che vedere con l’identità di genere, soprattutto perché non rispondere comporta non ottenere una diagnosi di disforia di genere e blocca l’accesso alle sentenze e alla chirurgia.

È inoltre dagli anni ’70 che Green e Zucker (Zucker pubblica ancora ed è un sostenitore della Littman), promuovono le cosiddette “terapie riparative” per scoraggiare la persona a dirsi trans, perché essere cis e gay viene percepito da questi “professionisti” come preferibile all’essere trans. Le terapie riparative sono state riconosciute come dannose a livello mondiale e in diversi paesi stanno adottando legislazioni per metterle fuori legge. Non è quindi neutro equiparare la sessualità con l’identità di genere, si porta dietro una storia di oppressione cisgender a spese delle persone trans di quasi mezzo secolo.

La narrativa di gran lunga peggiore è quella che crea allarmismo o panico morale, ma allo stesso tempo è anche la più facile da smontare presentando i fatti e spesso, come nel caso dell’articolo di Panorama, ha l’effetto contrario di quello che si prefigge: solidifica i rapporti all’interno di una comunità che prima era frammentata e che si compatta di fronte ad un attacco così insensato.

Il pericolo viene costruito o facendo leva su pregiudizi radicati come per esempio quello sulla non autenticità e creando falsi problemi o distorcendo problemi effettivi. C’è stata la storia della detenuta trans che ha molestato le compagne di cella (un problema effettivo) che è stata interpretata generalizzando come: “le donne trans sono un pericolo nelle carceri femminili” quando si è trattato di un errore macroscopico del sistema carcerario perché la detenuta trans aveva già precedenti di reati a sfondo sessuale e non doveva trovarsi in una cella con altre persone.

È la prospettiva o lo sguardo cis binario che distorce le storie delle persone trans vedendole come un pericolo in spazi divisi in maniera binaria come spogliatoi, toilettes, prigioni. E a farne le spese sono le persone trans, come la donna che si è suicidata l’anno scorso nel carcere maschile di Udine.

George Lakoff è un neurolinguista americano che ha scritto capolavori come “Metaphors we live by” insieme a Johnson e che poi si è andato a studiare come funziona a livello neurologico la creazione del linguaggio e delle metafore. Ultimamente è molto attivo in politica e dà consulenze e consigli su come contrastare il modello di comunicazione di Trump. Essenzialmente propone un modello di framing che smonti le distorsioni: presentare prima la propria prospettiva, poi comparare la propria prospettiva con quella della distorsione e infine rinforzare la propria prospettiva spiegando le conseguenze e perché è importante. Questo metodo può funzionare per i cliché della non autenticità, malattia e allarmismi.

Per il pietismo invece non esiste un metodo alternativo al dare voce alle persone trans. Senza il tronco di cono prezioso dell’auto-percezione trans, nessuna persona cis può vedere una persona trans per quello che è. C’è bisogno di posti di lavoro trans nei media, c’è bisogno di finanziare produzioni trans, c’è bisogno di catturare l’eterogeneità della comunità trans, di usare un linguaggio affermativo e non patologizzante.

Inoltre quando intervistate una persona trans la cartina tornasole per sapere se una domanda è transfobica è chiedervi se la chiedereste ad una persona cis e se la risposta è no, evitare di farla in quanto transfobica. Ma anche non ridurre le persone trans sempre e solo al loro essere trans. Ci sono persone trans che sono affermate in tutti i campi ed è fondamentale parlare anche di loro, perché rappresentano un modello a cui aspirare per la comunità trans al posto della pornografia della sofferenza che vediamo di solito.

Vista la scarsità di giornalist* trans, la nostra voce per ora si sente solo sui blog e nei siti, nei video di youtube e in tutti gli spazi “social”, per cui la soluzione a non avere un consumo eccessivo di internet da parte di adolescent* in cerca di informazioni e di un modello positivo e affermativo potrebbe essere proprio quello di fornire una rappresentazione più realistica delle persone trans nei media non online: giornali, film, serie etc. (oltre a rendere la società meno transfobica). All’estero ci sono state produzioni importanti come “Pose” il cui cast era quasi esclusivamente di persone trans, ma sono ancora casi isolati e c’è ancora molto da fare soprattutto in Italia (per esempio non ripetere l’errore di Storie del genere).

Ricapitolando brevemente:

  • Sguardo cis + premesse riduttive + ripetizione = distorsione
  • 4 tipi di distorsione più comune nei media: pietismo, patologizzazione, non-autenticità, allarmismi/panico morale.
  • si possono contrastare con il Truth Sandwich di Lakoff ma soprattutto dando voce e finanziando le persone trans nei media mainstream.