Testimonianza: Elisabetta Ferrari

Di seguito la testimonianza di Elisabetta Ferrari che fa parte di AGEDO e che è madre di una persona non binaria.

Mi chiamo Betta, la mia vita è sempre stata un casino e fino a pochi anni fa almeno di una cosa ero certa che al mondo esistessero solo le femmine e i maschi, poi la mia vita è cambiata e continua a cambiare perché ho messo in discussione tutto questo da quando mio figlio, a ventitré anni, mi disse di essere una persona trans non binaria.

Non mi sono accontentata di accettare per amore, non lo avevo fatto quando a quindici anni mi raccontò di essere lesbica, ancora meno dopo quel secondo coming out; accettare non racconta, non apre nessuna porta che invece io volevo aprire e l’amore non è certo sufficiente a comprendere, è un sentimento abusato di cui si parla quasi sempre a sproposito: per amore si ammazza, si subisce, si soffocano o assoggettano vite, ci si impossessa con ricatti morali o materiali dell’esistenza di figl*, per amore si adopera quel potere genitoriale esclusivo e mefitico che si crede innato per quel ruolo.

Io volevo capire e per farlo l’unico modo era mettere in discussione tutto, iniziando da me stessa, non mi bastava più essere femminista e avere lottato una vita per affrontare la rivoluzione che stavo iniziando a vivere. Facevo già parte dell’associazione Agedo ma da nessun genitore riuscivo ad ottenere risposte o perlomeno a condividere storie simili alla mia (non binario? Significa di certo un momento di confusione…), chi aveva figl* trans non usciva dalla narrazione mainstream dell’essere persone nate nel corpo sbagliato, del volersi invisibilizzare e conformare al sesso/genere opposto, rinascere in un corpo nuovo per accettarsi ed essere accettat*.

Un casino perché io avevo di fronte una persona che rifiutava tutto questo, che non rinnegava nulla del suo passato ma che non accettava di essere inserit* in nessuna casella di genere anche se aveva scelto pronomi al maschile e un nome rigorosamente neutro per la sua libertà.

Da sola ho iniziato a leggere e studiare per non affogare in ciò che non sapevo, a cercare ed ascoltare storie diverse che volevo conoscere e più andavo avanti più avevo la certezza di essere stata ingannata da sempre perché di questo, se non ti capita, nessun* ne parla o ne parla in modo sbagliato e senza competenze, ero arrabbiata anche per non essermi presa le responsabilità di sapere, di informarmi prima di tutto questo.

Insieme a mio figlio ho iniziato un percorso faticoso per entrambi ma inevitabileparallelo ma con destinazione differente fatto di litigi, discussioni, riappacificazioni, scambi continui di esperienze, di pensieri e d’intenti che spesso ci portavano a prendere cantonate incredibili.

Non sono “madre adorante” a prescindere perché penso che solo attraverso una relazione continua e alla pari si possano costruire/decostruire i rapporti, in cui litigi e incazzature siano momenti fondamentali insieme alla fiducia e al rispetto perché credo che i ruoli da soli non definiscano nulla ma siano imposizioni patriarcali ricche di quel paternalismo che schiaccia ognun* nella propria casella di appartenenza e che debbano quindi essere sovvertiti

Mi definisco “mamma queer”perché è in quella veste che ho iniziato a rovesciare il mio mondo, prima con stupore e poi con rabbia, sì una rabbia incontenibile che spesso ancora mi prende, per il tempo perso nel non aver compreso la solitudine e il dolore di mio figlio per non essermi accorta da subito di questa situazione non avendo avuto gli strumenti per farlo, esprimendo verso altr* giudizi orribili.

Elisabetta di schiena con un cartello verde con scritto “mamma queer” mentre viene abbracciata

Per circa vent’anni, settemila e trecento giorni di ferite grandi e piccole da lenire, di sforzi e di ricerca disperata di un qualcosa o qualcuno in cui riconoscersi,
di un’inquietudine intima, profonda, confusa e non riconosciuta è stata la vita di mio figlio come immagino la vita di tante persone come lui, il mio dolore e la mia rabbia era per non aver capito prima tutto questo.

Si parla sempre e solo del dolore causato ai genitori, delle loro aspettative tradite e mai delle fatiche de* figl* e del terribile senso di colpa causato dalla paura di deludere noi genitori.

Non ho elaborato nessun lutto e nessuna perdita di figlia o rinascita di figlio, non ho bisogno di vederlo come maschio o come femmina perché questo non cambia la sua natura, il suo sapore, il suo profumo, la sua consistenza, io amo una persona e non certo un generei valori che ho cercato di insegnargli appartengono certo al genere, ma quello umano.

Rispetto ma non condivido l’idea che alcune persone trans si sentano imprigionate nel corpo sbagliato ciò presupporrebbe che vi siano corpi giusti da inseguire ma non esistono corpi giusti esiste invece una società ignorante, sbagliata e violenta che fa ricadere sulle singole persone una responsabilità che non è individuale ma collettiva, culturale, giuridica, economica e quindi politica che invece ha interesse a mantenere nella patologia e nello sfruttamento dei corpi il proprio potere.

A questo proposito credo che l’importanza della comunicazione, quando si tratta di un argomento politico come questo, non stia solo in come se ne parla ma su cosa si sceglie di focalizzarsi. Questo è un punto nodale di questo discorso.
Perciò ho deciso che non potevo fare della mia/nostra storia una questione solo di famiglia ma portarla all’esterno, facendola uscire da una storia privata e affrontandola nella sua dimensione più ampia, politica e pubblica perché ci riguarda tutt*.

Ogni atto che facciamo fuori o dentro di noi è un atto politico che determina chi siamo e cosa vogliamo ed io non volevo stare in silenzio ma urlare la mia rabbia verso questo sistema che da subito istituisce una narrazione falsa e violenta dell’esistente imponendo la logica unica, binaria ed eterosessista del maschile e del femminile, che nega tutte le differenze di genere e sessuali con la nauseante divisione dei ruoli tra le bambine e i bambini a cui non vengono offerte le stesse possibilità nemmeno nei sogni, rigidamente colorati di rosa o di blu.

Nel prendere consapevolezza di tutto questo ho cercato, di affondare la rabbia per far emergere la ragione e spiegare attraverso un paziente confronto cosa volesse dire essere genitore che attraverso questa esperienza ha preso consapevolezza che il vero problema non sono le persone non conformi, poi conformi rispetto a chi? A quella maggioranza che ha il potere e decide come ci si deve adeguare ma è la società che deve imparare a informarsi, capire e accogliere.

Mi viene un’orticaria tremenda quando leggo interviste o vedo programmi che trattano la questione trans come un “problema” che riguarda solo queste persone e non tutta la società, il potere che governa ogni tanto concede qualche “dirittino” senza mai mettere in discussione quel patriarcato che ha fatto e continua a fare dell’eterosessualità la norma e della rigida divisione di genere la sua naturale conseguenza.

Le persone trans vengono trattate tutte come disforiche che sentono disagio o disgusto verso il proprio corpo non in linea con il sesso/genere assegnato alla nascita, che per legge devono essere aiutate da espert* (sempre cisgender) nel loro percorso di transizione, infantilizzate come vittime, normate nel loro sentire in un preciso maschile o femminile, generalizzando così la questione trans in cui la disforia viene presentata sempre certa e uguale per tutt*.

Ai media poi piace mettere in evidenza, con quel paternalismo tossico che li distingue, il dolore che queste persone, viste sempre come vittime di una natura distratta e negativa, hanno provocato alla famiglia, in primis alla madre, ad eventuali figl*, alle amicizie, con domande e affermazioni a dir poco imbarazzanti, mostrando foto di prima, durante e dopo la trans-formazione, spiattellando senza ritegno i nomi assegnati loro alla nascita e infilandosi in un privato che vuole mostraci quanto sia importante invisibilizzarsi nel nuovo genere, rinascere nel corpo giusto per sentirsi se stess* e accettat* dalla collettività, quella collettività conforme alla regola che tutto ciò che non appartiene alla maggioranza è a-normale, strano ma si può perdonare/curare se almeno rientra nel binario.

Ripeto che rispetto e non giudico le persone che transitando nell’altro sesso/genere ci si identificano ma credo anche che questo sia frutto di una violenza nascosta dietro a quel paternalismo sempre presente che perpetra quello stereotipo negativo sulle persone transgender e che nega, occulta, discrimina anche altre identità come quelle non binarie.

Quando mio figlio mi disse che non si riconosceva nel genere assegnato alla nascita, che aveva una diversa percezione di sè ma non era quella di identificarsi trans-formandosi nel sesso/genere opposto al suo perché metteva in discussione proprio i generi come imposizione sociale attraverso una personale e minuziosa decostruzione e rielaborazione continua del vivere il corpo come soggetto politico in uno spazio collettivo, per me non fu facile entrare in questa dimensione sconosciuta e incasinata ma è da lì che ho iniziato a capire.

Tornava distrutto dagli incontri con la psicologa del consultorio dedicato alle persone trans, obbligato dal percorso legislativo di medicalizzazione che doveva certificare la sua “patologia mentale” (NdR: non è più considerata patologia) per poi poter accedere alle terapie ormonali ed oltre a questo era furibondo perché gli veniva richiesto di interpretare con evidenza e in ogni modo la sua parte maschile e dimostrare come espressione di genere che percezione di sè, quella incarnata e normata nel genere opposto al suo, solo così poteva avere la “patente” per essere riconosciuto autentica persona transgender.

Certo che alcune persone trans non binarie vogliono compiere transizione completa ma continuano comunque a non riconoscere la costruzione sociale del genere. Gettare ragazz*, il più delle volte sol*, in questo inferno senza rendersi conto del male che si può fare si chiama disforia di genere oppure disforia sociale?

Io ero con lui, lo vedevo soffrire e stavo malissimo, pensavo continuamente a ragazz* abbandonat* dalle famiglie, non potevo stare in silenzio. La mia rabbia era feroce, non capivo perché oltre all’imposizione di subire un percorso psicologico contro la sua volontà dovesse anche rinunciare alla libertà di autodeterminare la sua identità. Una violenza inaccettabile. Percorremmo altre strade ma sempre in salita. Non potevo credere, come veniva raccontato anche da tanta parte della comunità transessuale/transgender e da psicolog* che per essere veramente trans si dovesse in qualche modo transitare, avere costante disforia e rinnegare ciò che si era stat* prima per rinascere felici nel nuovo corpo/genere.

Elisabetta sul palco del pride
Elisabetta di spalle che parla al pubblico dal palco del pride di Reggio Emilia

Per mio figlio, come per tante altre persone non binarie, non era affatto così perché non basta solo un gel o un bisturi per mettere le cose a posto se non si è in grado di cogliere la questione politica legata a tutto questo.

Non avevo nessun punto di riferimento, tutto mi riportava a ritenere di essere in confusione e per un po’ di tempo è stato così, sbagliavo approcci, mi sentivo sempre fuori posto, sola nelle amicizie di una vita che piano piano sparivano ma io andavo avanti lo stesso; ascoltavo vissuti, il transfemminismo la via, leggevo continuamente, ho iniziato a capire cercando di elaborarne la portata politica, ri-conoscere e ri-definire tutto ciò che avevo appreso sui generi e sul sesso fino ad allora.

Il principio che organizza e pianifica la società è inscritto in quel maschile dominante e in quel femminile dominato in cui la possibile ribellione può essere data da queste differenti identità di genere e/o sessuali che risultano pericolose per questa società eteronormata e binaria ma può e deve essere affiancata da chi si oppone ad una omologazione acritica di questa società.

È davvero incredibile quanta assuefazione ci sia oggi alla violenza continua che viene usata sulle bambine e sui bambini ancora prima che nascano per fare in modo che tutto ciò che faranno, sceglieranno possa essere riconducibile a precisi ruoli di genere a cui allenarsi/alienarsi da subito perché tutto possa essere incasellato in un femminile e in maschile eteronormato. Se la natura avesse “naturalmente” stabilito la divisione dei due generi la società non avrebbe bisogno di imporre da subito regole sul genere in maniera così oppressiva e performante.

Ed è proprio su questo che bisogna intervenire ed essere attivista mi offre questa possibilità, far parte di Agedo mi ha dato l’opportunità di poter parlare, far conoscere, condividere un linguaggio nuovo e più inclusivo lavorando su questi temi, poco conosciuti di cui si parla poco e troppo spesso a sproposito, certo non è affatto semplice ma trovare la disponibilà all’ascolto è importante come lo è incontrare ragazz* per conoscere le loro storie di esclusione e far capire loro e quando è possibile ai loro genitori che non sono alieni sulla terra e che non sono sol*.

Elisabetta al pride
Elisabetta con altr* genitori che sorregge la bandiera di Agedo al pride

Non mi sento più parte del sistema binario che rifiuto e metto costantemente in discussione, le persone dovrebbero avere il diritto di vivere per come sono ed essere libere di potersi autodeterminare senza dover giustificare la loro identità in nessun modo perché non dovrebbe esserci un modo, anche se la realtà costringe a subire altre storie.

A volte la solitudine in cui ci si sente toglie il fiato, ho dovuto lasciare amicizie di una vita perché i giudizi (espressi per il mio/nostro bene) sul mio comportamento di madre “snaturata” erano insopportabili, controllare la rabbia di fronte a certi sguardi quando sono con mio figliol’allenamento continuo nel rispondere (conto sempre fino a dieci prima di farlo) ad un quotidiano che dà per scontato solo un’unica narrazione e che non è facile da sostenere, non vinco spesso ma ci provo, eccome se ci provo. Da qualche parte si deve pur cominciare per cambiare le cose.

Non riesco ad immaginare come potrà essere il futuro di mio figlio, non credo vi sarà un punto di arrivo, sfido un giorno alla volta.